L’umiltà di crescere: lo spazio, i
cittadini e la città
di Andrea Satta
Lo spazio è un concetto obiettivo. Esistono modi di
intenderlo che presumono una consapevolezza di ciò che si è e di ciò che si fa.
Questo vale per le persone e per le istituzioni.
Pordenone è una piccola città, da un estremo all’altro, in
bicicletta, la si percorre in poche decine di minuti, per lungo e per largo. La
città vera e propria è racchiusa in un ring, nome altisonante per pochi
chilometri di circonvallazione interna, fuori, nel raggio di poco, ci si
ritrova ancora in frazioni alternate di capannoni e campagna.
Eppure nonostante questa dimensione a volte i Pordenonesi
vivono di parigina grandeur. Parcheggiano a pochi secondi dal bar
dell’aperitivo, unico rito sociale rimasto in una città che da sempre mal sfrutta
la sua capacità innovativa, culturale e sociale, si lamentano del costo dei
parcheggi abitando a 5, 10 minuti a piedi dal corso.
Pordenone è una città ricca, anche se lo sta diventando
sempre meno, ricca di luoghi pubblici di potenziale socialità che
quotidianamente subiscono l’attacco di una mentalità protettiva e un po’ miope.
Le istituzioni pensano in grande, a volte grandissimo, e
poi dimenticano il piccolo, piccolissimo.
Pensare, scrivere, leggere, suonare, dedicare, recitare,
curare ed assistere.
Pordenone tende a usare l’infinito trasformando ciò che è
piccolo in ciò che potrebbe divenire grande, dimenticando la città, la sua
dimensione non certo infinita ma ben definita. A volte gli imperativi imperano:
Legge! Pensa! Scrive! Dedica! quasi fosse un ordine morale per i cittadini che,
invece colgono tutto ciò come hanno sempre fatto: partecipando con moderazione.
Le istituzioni sociali in questo non son diverse e portano
in sè le ansie di un bambino bravo ma mingherlino.
A Pordenone non basta più pensare la città,
Pordenone deve in qualche modo ripensare se stessa.
L’ultimo, in termini di tempo, episodio di difficoltà di
visione politica futura è stato l’Ospedale, o meglio il Nuovo Ospedale. Dove
sia giusto farlo, come e con che soldi sono argomenti di ordine politico
regionale, provinciale e locale. Dove sia il giusto io, personalmente non lo
so.
Una cosa però è chiara, anche a chi come me nel sociale
lavora da più di 15 anni: la discussione
non ha preso la strada giusta.
Siamo ricaduti nell’effetto Great Complotto. Si
parla di Pordenone come se fosse Londra. Però una cosa è certa: Pordenone
potrebbe diventare come Londra… ma Londra non diventerà mai come Pordenone.
L’Ospedale serve, eccome se serve, a tutti e non solo ai
cittadini. I soldi per farlo servono, e tanti. La volontà politica è
essenziale, l’accordo politico no.
Ciò che servirebbe oggi, come sarebbe servita nel 1984 per
la musica, è un po’ di umiltà, cercare il bene comune, e, come non mai, oggi
ricostruire da zero le basi sociali, culturali e politiche di una città che si
sta risvegliando, con un terribile mal di testa, dalla sbronza di benessere
degli ultimi 40 anni.
Sembra mancare però l’Alka-seltzer, sembra mancare
la capacità di sedersi e guardarsi in faccia e dirsi: forse era meglio non
esagerare.
Passeggiando per il corso, desolatamente vuoto alle 9 di
sera, sembra di camminare per una piccola Disneyland del nordest: negozi
sfavillanti di merce costosa e invenduta, palazzi ristrutturati e pochi segni
di (in)civiltà: nessun mozzicone per terra, bar chiusi, silenzio assordante.
Per strada la domenica, il sabato, vedi passeggiare gruppi
di uomini e donne in carrozzina o tenuti per mano da altri uomini e donne con
la faccia dei bravi ragazzi, alcuni, dei cattivi ragazzi altri. Sono il nostro
futuro e il nostro presente che vogliamo non vedere, sono quel sommerso di
lavoro di relazione e cura che ogni giorni, per poche lire, i professionisti
del sociale fanno: educatori, operatori. La nomenclatura non cambia la
sostanza.
La città è piena di piccoli luoghi di vita e speranza,
centri di salute mentale, case di riposo, alloggi protetti. È piena di spazi con
ragazzi difficili, o meglio con ragazzi diversamente facili, di luoghi con
famiglie che si arrabattano scavando nei bidoni della Caritas, è piena di
ragazzi sull’orlo di una crisi di identità, costretti a guardare al proprio
futuro occupato da vecchi quarantenni ancora, e sempre di più, precari.
La città, le sue istituzioni, sono governate, come tutta
l’Italia, quasi esclusivamente da una gerontocrazia giovanile.
Ecco cosa dovrebbe fare Pordenone: smettere di essere
giovanile e diventare adulta.
Dovrebbe lasciare che a crescere siano i cittadini di ogni
razza e colore (e non me ne vogliano i puristi del politicaly correct se uso
razza), che a trasformare Pordenone da un deprimente status di parvenù
ad un meraviglioso stato di consapevolezza, siano loro, i cittadini, di nuovo,
nuovi.
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