Il vicolo cieco
La nonrivoluzione italiana
Pubbilcato su Macramè, Aprile 2012
L’Italia è il Paese delle rivoluzioni annunciate.
Ogni governo promette riforme epocali che spesso nascondono semplici e controrivoluzionarie manovre finanziarie. Il sistema Italia, ammesso che si possa definire sistema, mantiene una stratificazione normativa che applica regi decreti e leggi del ventennio fascista.
La definizione di un sistema politico, o di un regime se non diamo un’accezione negativa alla parola, deve essere in grado di definire limiti, o semplicemente diritti e doveri sia per chi le leggi deve applicarle sia per
chi deve rispettarle.
L’Italia è da questo punto di vista quello che da studente mi sembrava l’aspetto più anarchico del greco antico: le regole che devi studiare meglio sono le eccezioni.
Abbiamo delle regole ma ciò che ci guida è l’eccezione alla regola.
Non credo che la vera rivoluzione sia creare regole ma semplicemente uscire dal cul de sac dove novanta anni di regimi dittatoriali e democratici ci hanno portato.
Siamo veramente in un vicolo chiuso?
Prendiamo il nostro sistema di welfare. La costituzione lo vorrebbe universalistico: l’articolo 3 dice che siamo tutti uguali, e solidaristico (art.2), ma la riforma del Titolo V ha introdotto un mini federalismo attraverso la sussidiarietà, ovvero le regioni più ricche aiutano quelle più povere.
Quindi l’Italia è diventata un po’ più federalista e il suo welfare un po’ meno centralista. Detto così verrebbe da dire che, finalmente, una vera riforma è iniziata. Eppure l’incertezza regna sovrana: siamo federalisti nell’erogazione degli interventi ma centralisti nella distribuzione delle risorse necessarie al funzionamento.
Così verrebbe da pensare che se siamo tutti uguali curarsi a Orotelli è uguale che curarsi a Villa Santina, che essere assistito da ricco è uguale che essere assistito da povero.
L’Italia sembra un bambino indeciso, nonostante stia lentamente raggiungendo la maturità democratica, ovvero abbia raggiunto cent’anni o poco più di democrazia imperfetta.
Ogni volta che ci si pone la domanda dove stiamo andando siamo incerti, come un bambino capriccioso: vorrei il sistema universalistico ma anche selettivo, le pensioni statali ma anche i fondi integrativi, il lavoro fisso ma anche flessibile, gli ospedali pubblici ma a pagamento, le scuole pubbliche ma a carico dei genitori...
Siamo sempre un po’ comunisti con forti propensioni al liberalismo, siamo un po’ liberali ma con grande attenzione al consociativismo, siamo familisti per le famiglie altrui e libertini per le nostre, siamo generosi con il terzo mondo e violenti con i rom italiani, siamo federalisti quando si tratta di ricevere soldi e centralisti
quando si tratta di non darli ad altre regioni, siamo autonomisti se ricchi e nazionalisti se poveri (e incredibilmente anche viceversa). Cosa ci aspetta nei prossimi anni? Una sintesi tutta italiana dei modelli politici europei (e non solo). Oppure, come sembra prospettarsi anche dopo questi primi mesi dell’anno, torneremo a parlare di riforme epocali, di pericoli rossi, arancioni e blu, di colpe altrui e ente parlare
del nostro sistema statuale, ha bisogno di chiarezza: o di qua o di là. Il vero problema è che non si sa cosa sia il qua ed il là.
Forse almeno questo potremmo chiederlo.
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venerdì 6 settembre 2013
Vicolo cieco
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mercoledì 12 dicembre 2012
Il Piano di zona: Governance, Integrazione, Partecipazione.
Il
Piano di zona: Governance, Integrazione, Partecipazione. Bastano tre
parole per essere risorsa partecipativa?
Andrea
Satta
Le parole
hanno significato per quel che attuano.
I nuovi
Piani di Zona che ogni Ambito Distrettuale dovrà predisporre sono
una grande opportunità e insieme un enorme rischio.
Esistono,
infatti, strumenti che appaiono fin dal primo momento funzionali ai
processi di pianificazione territoriale, esistono altri che hanno
bisogno di una lunga gestazione e spesso rischiano di nascere quando
i fratelli sono già troppo grandi e camminano con le proprie gambe.
Abbiamo visto come il terzo settore, la cooperazione, ma anche la
politica a volte, abbia la capacità di affrontare la contingenza e
di produrre risposte immediate ed idonee. Certo sono figli
illegittimi (senza legittimità normativa) ma sono pur sempre figli.
Il
welfare, parola inglese che mutuiamo con estrema leggerezza, è un
sistema complesso, arzigogolato, intrecciato. Il Piano di Zona
vorrebbe ordinarlo, rendere il sistema più efficiente, efficace ed
economicamente sostenibile. Le tre E sono sempre più presenti e,
oggi con la crisi che travolge tutto e tutti, la terza E di economia
diviene più che una speranza una minaccia.
Ci sono
strumenti, anche se la terminologia sociale e istituzionale può
essere fuorviante per i non addetti ai lavori, che dovrebbero fornire
il modo per andare ad erogare servizi, interventi, finanziamenti. Il
Piano di Zona è lo strumento principe di questo complesso e
non sempre comprensibile processo di programmazione locale.
Partiamo
dal capire che quando si parla di programmazione non si parla ancora
di risultati, quando si parla di progetti non si parla ancora di
azioni concrete. Insomma fra il dire e il fare c'è di mezzo il
mare.
Il mare,
nel nostro caso sono i prossimi tre anni 2013/2015, è vasto e
l'imbarcazione con cui le istituzioni si propongono di navigarlo,
sembra essere un po' stretta e soprattutto priva dell'essenziale
carburante finanziario. Infatti proprio la dotazione economica sembra
essere, insieme alla scelta delle priorità di intervento, il vero
tallone di Achille dell'intero dispositivo normativo. I fondi, di cui
i singoli Piani di zona (e in provincia di Pordenone saranno 5)
potranno fruire, sono gli stessi con cui si erogheranno i servizi e
gli interventi. Per usare una metafora parlamentare sembra che questi
Piani di zona servano più a mettere in ordine l'esistente che a
creare innovazione. Insomma sono una sorte di legge quadro che
raccoglie in alcune aree l'esistente, lo sistematizza e lo rioffre
semplificato alla cittadinanza. Se così fosse già si sarebbe
ottenuto un notevole risultato. Ma a che prezzo?
Le linee
guida, l'apparato normativo, la predisposizione di programmi, di
progetti e di processi di governance possono apparire come una mole
di lavoro e di impegno abnorme e di cui ancora non si comprende la
reale ricaduta sul sistema di erogazione dei servizi.
Si tratta
in questa prima fase di processi governance, altra parola che
significativamente non ha traduzione in italiano, ovvero di quel
complesso sistema di gestione e governo delle leggi, delle norme,
relazioni che servono a predisporre un processo partecipativo.
Governance
significa, almeno nella declinazione sociale di cui parliamo,
coinvolgimento, partecipazione, ascolto, raccolta bisogni, istanze,
proposte, in una parola tavoli. La parola oltre evocare un
(magro) banchetto ha, sui professionisti del sociale, un effetto
rassegnato di grande dispendio di energie e di basso risultato poi
sul piano attuativo. Purtroppo, e credo per una cattiva
interpretazione dell'assunto partecipativo, i tavoli sono risorse di
grande valore che però rimangono ingabbiati in un dispositivo che ha
già in se le risposte.
Dopo
l'esperienza 2006/2008 del primo Piano di Zona la parola d'ordine
rimane ancora l'integrazione Socio Sanitaria. Si tratta di
un'integrazione che, nei fatti, stenta a decollare e che rimane
speranza prima ancora che progetto. Eppure da essa non si può
prescindere in un sistema che a livello locale, regionale e nazionale
e, parzialmente, europeo, si sta posizionando su tre macro aree di
lavoro: Occupabilità, Sanità e Famiglia. Ciò obbliga il Sistema
dei Servizi Sociali (dei Comuni) a confrontarsi non solo nelle aree
ad alta integrazione sociosanitaria ma anche nel mercato del lavoro e
nella comunità, con tutto quello che significa questa enorme
parola/contenitore.
Come
tutti gli strumenti anche il PDZ non ha valore etico ma la scrittura,
la costruzione, gli indirizzi politici, morali e a volte etici per
cui questo strumento è stato scritto sono chiari: intervenire nella
ridefinizione del sistema di welfare, intervenire in aree ritenute
scoperte o di particolare interesse comunitario e contingente (aree
materno-infantile, disabilità, anziani, inserimento lavorativo,
famiglia e genitorialità).
C'è da
chiedersi se ha valore etico il coltello o il fatto che si usi per
uccidere, così c'è da chiedersi se il PDZ debba essere giudicato
per quello che è in potenza o per quello per cui verrà utilizzato.
In tutto
questo la Cooperazione Sociale? Sembra un po' un convitato di pietra,
che però è presente e partecipante ai processi di erogazione dei
servizi.
Anche
questa come tante altre volte è una questione di significati che
vogliamo dare alle parole. Cooperazione non è forse sinonimo di
partecipazione?
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