giovedì 12 dicembre 2013

DOMICILIARITA’ LEGGERA, UN’ALTERNATIVA ALLA SOLITUDINE


DOMICILIARITA’ LEGGERA, UN’ALTERNATIVA ALLA SOLITUDINE
Di Andrea Satta

Ormai da alcuni anni il sistema dei servizi per gli anziani s’interroga sulle possibili nuove soluzioni, adatte alle loro esigenze e alle ridotte disponibilità economiche del sistema pubblico, ribadendo la necessità di proseguire nella ricerca di soluzioni alternative ai grandi contenitori come RSA e case di riposo.
Il nuovo contesto sociale, il perdurare della crisi economica, la necessità di trovare continuamente nuove risorse in grado di sopperire ad un sistema di welfare sempre più in affanno, apre la possibilità di coprogettazione e cogestione di soluzioni alternative alla formula tradizionale, in linea con la nostra attuale esperienza di Rete, approfondendo le tematiche della microresidenzialità e della commistione pubblico-privata per la proposta di modelli alternativi.
Sicuramente ciò che non si può prevedere sono sviluppi alternativi alle istituzioni tradizionali senza una forte connessione territoriale, una capacità di progettazione innovativa e una capacità di fundraising presso il privato.
Risulta evidente come il pubblico e il privato dovrebbero colloquiare sullo stesso piano, riuscendo così a trovare soluzioni particolarmente vantaggiose, ma allo stesso tempo rispettose dei bisogni degli anziani.

La presenza di attori del privato profit che risultano essere oggi gli interlocutori più interessanti per le operazioni territoriali di questa portata, è particolarmente complessa di fronte ad un sistema di finanziamento non ancora in grado di valorizzare gli aspetti economici anche per le fondazioni bancarie, gli investitori privati o fondazioni di comunità. Questi soggetti sono interlocutori preferenziali per rispondere in modo efficace ai bisogni di cura anche per anziani autosufficienti, per piccole comunità in zone territorialmente svantaggiate e per soluzioni che possano intercettare il sempre più diffuso e preoccupante fenomeno dell’assistenza familiare.

L'umiltà di crescere: lo spazio, i cittadini e la città

Pubblicato su  Macrame dicembre 2013

L’umiltà di crescere: lo spazio, i cittadini e la città
di Andrea Satta

Lo spazio è un concetto obiettivo. Esistono modi di intenderlo che presumono una consapevolezza di ciò che si è e di ciò che si fa.
Questo vale per le persone e per le istituzioni.
Pordenone è una piccola città, da un estremo all’altro, in bicicletta, la si percorre in poche decine di minuti, per lungo e per largo. La città vera e propria è racchiusa in un ring, nome altisonante per pochi chilometri di circonvallazione interna, fuori, nel raggio di poco, ci si ritrova ancora in frazioni alternate di capannoni e campagna.
Eppure nonostante questa dimensione a volte i Pordenonesi vivono di parigina grandeur. Parcheggiano a pochi secondi dal bar dell’aperitivo, unico rito sociale rimasto in una città che da sempre mal sfrutta la sua capacità innovativa, culturale e sociale, si lamentano del costo dei parcheggi abitando a 5, 10 minuti a piedi dal corso.
Pordenone è una città ricca, anche se lo sta diventando sempre meno, ricca di luoghi pubblici di potenziale socialità che quotidianamente subiscono l’attacco di una mentalità protettiva e un po’ miope.
Le istituzioni pensano in grande, a volte grandissimo, e poi dimenticano il piccolo, piccolissimo.
Pensare, scrivere, leggere, suonare, dedicare, recitare, curare ed assistere.
Pordenone tende a usare l’infinito trasformando ciò che è piccolo in ciò che potrebbe divenire grande, dimenticando la città, la sua dimensione non certo infinita ma ben definita. A volte gli imperativi imperano: Legge! Pensa! Scrive! Dedica! quasi fosse un ordine morale per i cittadini che, invece colgono tutto ciò come hanno sempre fatto: partecipando con moderazione.
Le istituzioni sociali in questo non son diverse e portano in sè le ansie di un bambino bravo ma mingherlino.
A Pordenone non basta più pensare la città, Pordenone deve in qualche modo ripensare se stessa.
L’ultimo, in termini di tempo, episodio di difficoltà di visione politica futura è stato l’Ospedale, o meglio il Nuovo Ospedale. Dove sia giusto farlo, come e con che soldi sono argomenti di ordine politico regionale, provinciale e locale. Dove sia il giusto io, personalmente non lo so.
Una cosa però è chiara, anche a chi come me nel sociale lavora da più di 15 anni:  la discussione non ha preso la strada giusta.
Siamo ricaduti nell’effetto Great Complotto. Si parla di Pordenone come se fosse Londra. Però una cosa è certa: Pordenone potrebbe diventare come Londra… ma Londra non diventerà mai come Pordenone.
L’Ospedale serve, eccome se serve, a tutti e non solo ai cittadini. I soldi per farlo servono, e tanti. La volontà politica è essenziale, l’accordo politico no.
Ciò che servirebbe oggi, come sarebbe servita nel 1984 per la musica, è un po’ di umiltà, cercare il bene comune, e, come non mai, oggi ricostruire da zero le basi sociali, culturali e politiche di una città che si sta risvegliando, con un terribile mal di testa, dalla sbronza di benessere degli ultimi 40 anni.
Sembra mancare però l’Alka-seltzer, sembra mancare la capacità di sedersi e guardarsi in faccia e dirsi: forse era meglio non esagerare.
Passeggiando per il corso, desolatamente vuoto alle 9 di sera, sembra di camminare per una piccola Disneyland del nordest: negozi sfavillanti di merce costosa e invenduta, palazzi ristrutturati e pochi segni di (in)civiltà: nessun mozzicone per terra, bar chiusi, silenzio assordante.
Per strada la domenica, il sabato, vedi passeggiare gruppi di uomini e donne in carrozzina o tenuti per mano da altri uomini e donne con la faccia dei bravi ragazzi, alcuni, dei cattivi ragazzi altri. Sono il nostro futuro e il nostro presente che vogliamo non vedere, sono quel sommerso di lavoro di relazione e cura che ogni giorni, per poche lire, i professionisti del sociale fanno: educatori, operatori. La nomenclatura non cambia la sostanza.
La città è piena di piccoli luoghi di vita e speranza, centri di salute mentale, case di riposo, alloggi protetti. È piena di spazi con ragazzi difficili, o meglio con ragazzi diversamente facili, di luoghi con famiglie che si arrabattano scavando nei bidoni della Caritas, è piena di ragazzi sull’orlo di una crisi di identità, costretti a guardare al proprio futuro occupato da vecchi quarantenni ancora, e sempre di più, precari.
La città, le sue istituzioni, sono governate, come tutta l’Italia, quasi esclusivamente da una gerontocrazia giovanile.
Ecco cosa dovrebbe fare Pordenone: smettere di essere giovanile e diventare adulta.

Dovrebbe lasciare che a crescere siano i cittadini di ogni razza e colore (e non me ne vogliano i puristi del politicaly correct se uso razza), che a trasformare Pordenone da un deprimente status di parvenù ad un meraviglioso stato di consapevolezza, siano loro, i cittadini, di nuovo, nuovi.